La liturgia in lingua latina, ormai tristemente obliata, è davvero così superata dai tempi?
Alcuni giorni fa abbiamo avuto la felice opportunità di assistere ad una Messa di requiem, celebrata nella chiesa di Mirabello in ricordo dei caduti di entrambe le fazioni della battaglia di Pavia. La battaglia si svolse nei pressi di Mirabello la mattina del 14 febbraio 1525, durò in tutto un paio d’ore che bastarono a cambiare il corso della storia di gran parte dell’Europa. Siamo quindi al V centenario! La messa suffragale viene celebrata ad ogni anniversario, da una quarantina d’anni, secondo il rito tridentino, in uso già ai tempi della battaglia e poi canonizzato nel 1570 da papa Pio V Ghislieri con l’imprimatur all’edizione del Missale Romanum ex Decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum, noto sinteticamente come Messale tridentino, ovviamente in lingua latina. A seguito del Concilio vaticano II il messale è stato tradotto nelle lingue volgari. Ma non tutto! La Messa di requiem non è mai stata tradotta, generando l’impressione di una condanna all’oblio.
La solennità del rito al quale abbiamo assistito, con tre celebranti e la presenza di sedici cantori accompagnati dal suono dell’organo e di una ormai quasi dimenticata tiorba, e l’emozione che ha saputo generare, inducono alcune riflessioni.
Intanto ricordiamo che la ritualità tridentina non è nata occasionalmente: è maturata in secoli di esperienza finalizzata ad uno scopo alto. La massa degli astanti non capiva il senso delle parole in una lingua a loro ormai estranea, ma l’obiettivo non era trasmettere la conoscenza lessicale del testo liturgico, bensì un misterium fidei. La Messa di requiem è incentrata sul Dies irae di Tommaso da Celano, francescano del XIII secolo. Il fascino arcano che emana richiama al giorno del giudizio, dies illa. Con un linguaggio incomprensibile ai più, certo, ma basta forse usare parole in lingua corrente per comprendere il senso recondito di quel giorno? Non è questa la via.
Il tentativo di avvicinare il mistero cerca altri percorsi, dei quali quello emotivo, insieme al percorso esoterico è uno dei principali. Non per comprendere, ma almeno per avvicinarsi.
Non è un caso che molti grandi musicisti abbiano voluto affrontare il tema. Possiamo ricordare la finezza del Requiem di Mozart, incompiuto per… cause naturali. E il Requiem di Verdi, l’angoscia creata dal Lacrimosa, mentre il Lux aeterna ci porta in un’atmosfera rarefatta, irreale.
E’ d’altronde facile verificare che pure oggi la maggior parte dei presenti alla messa ordinaria recita i testi (in lingua italiana, comprensibili) in modalità filastrocca, senza meditazione sul contenuto. E non ci dobbiamo stupire, è il meccanismo tipico del mantra, ma applicato ad una ritualità molto meno ricca del rito tridentino. Il meccanismo si estende perfino al Credo, che viene recitato come se fosse una preghiera. Il Credo non è e non vuole essere una preghiera, è un’affermazione, in prima persona, di ciò che si ritiene essere cristiano e la recita collettiva serve a riconoscersi nella stessa comunità che ne condivide il contenuto. Si parte con un’affermazione, Credo, poi si specifica punto per punto l’oggetto del credere. Senza una riflessione puntuale rimane significativo?
Un’altra riflessione, importante, riguarda il fatto che questa grande tradizione, così ricca, sofisticata e profondamente misterica, con la sua raffinata modalità di comunicazione non ha valenza solo religiosa, ha impregnato la nostra cultura nel corso dei secoli. E oggi la stiamo perdendo. I giovani ben poco ne sanno, è sempre più difficoltoso persino trovare celebranti che la conoscano.
Credo che dovremmo soffermarci a pensare una qualche modalità di recupero e di promozione di questa tradizione così bella e importante. Non per la valenza religiosa, che, con tutto il rispetto, dovrebbe essere opera di chi vi è specificamente preposto. Ma il patrimonio culturale che vi è associato molto ci riguarda. Vogliamo “rinascere”? Pensiamoci.
Giovanni Demartini