Ci sono frasi che sopravvivono ai secoli grazie alla loro apparente semplicità. Una di queste è l’epitaffio attribuito a Jacques de La Palice: «Se non fosse morto, sarebbe ancora in vita». Un’ovvietà così fulminante da aver dato origine ai termini lapalissade in francese e lapalissiano in italiano, sinonimi di banalità spacciata per saggezza. Eppure, dietro questa frase si nasconde una storia molto più cupa e complessa, fatta di onore cavalleresco, armi da fuoco e avidità umana.
In realtà, la morte di La Palisse non fu solo la fine di un uomo, ma il simbolo della fine di un’epoca. Questo articolo esplora ciò che il celebre epitaffio non dice: la brutalità delle armi moderne, l’avidità che supera l’onore e il vero messaggio che un monumento a La Palisse dovrebbe trasmettere.
Infatti, dal 2008 ad oggi, con diverse motivazioni, è stato più volte proposto che Pavia onorasse Monsieur de La Palisse, proprio in virtù della fama che la parola lapalissiano ha dato alla città.
La morte di La Palisse: tra onore e tradimento
Il 24 febbraio 1525, durante la battaglia di Pavia, Jacques de La Palice cadde combattendo contro le truppe imperiali. La leggenda vuole che fosse uno degli ultimi cavalieri a battersi secondo il codice d’onore medievale. Tuttavia, la sua morte fu tutt’altro che onorevole: catturato dal capitano italiano Castaldi, La Palisse fu risparmiato non per rispetto ma per interesse. Castaldi sperava infatti di ottenere un ricco riscatto dalla sua famiglia.
Sfortunatamente per entrambi, la cupidigia altrui fu più veloce. Un capitano imperiale, tal Buzarto, riconobbe Il prigioniero “nobile, magnifico”, “di cui verrebbe lucrativo il riscatto; pretese di essere associato al Castaldo, che lo ricusò; e il Buzarto con una archibugiata gettò morto il Maresciallo di Chabannes (La Palisse) dicendo: «Ebbene, non sarà dunque né mio né tuo».” Nessuna sfida cavalleresca, nessun duello d’onore: solo il secco rumore di un’arma da fuoco e la banalità della morte.
E a proposito di banalità, l’epitaffio che rese La Palisse famoso potrebbe essere frutto di un errore di trascrizione. Alcuni sostengono che il testo originale dicesse: «Se non fosse morto, susciterebbe ancora desiderio» [1], alludendo al rispetto e all’invidia che il cavaliere avrebbe continuato a ispirare, e alla brama di denaro che ne causò la morte. Ma, in fondo, l’ovvietà dell’epitaffio ci racconta meglio di qualsiasi poesia la cruda semplicità della morte in battaglia.
L’efferatezza delle armi da fuoco: la fine di un’epoca cavalleresca
La battaglia di Pavia segnò un momento cruciale nella storia militare europea: per la prima volta, la potenza devastante delle armi da fuoco fece a pezzi l’élite cavalleresca. L’80% dei cavalieri francesi fu sterminato da archibugi e cannoni, strumenti che trasformavano il combattimento in una questione di rapidità e vantaggio tecnologico, non di valore personale.
La morte di La Palisse non fu solo quella di un uomo, ma quella di un intero modo di intendere la guerra. Gli archibugi sostituivano le spade, le imboscate prendevano il posto dei duelli, e l’onore diventava un concetto nostalgico, buono per le ballate dei trovatori.
Se c’è un’ironia nella morte di La Palisse, è proprio questa: uno degli ultimi cavalieri finì ucciso da un’arma che non gli lasciò nemmeno la consolazione di un combattimento alla pari. Come a dire che il progresso tecnologico non solo uccide, ma lo fa con una brutalità sconcertante.
La brama di denaro oltre il rispetto per la vita
Ma se le armi da fuoco posero fine all’epoca della cavalleria, fu l’avidità a mettere la parola fine alla vita di La Palisse. Castaldi risparmiò il cavaliere solo per arricchirsi con il riscatto. Il soldato che lo uccise lo fece per non perdere una preda preziosa, e perché “il suo onore” si sentiva offeso dal rifiuto del Castaldi di dividere il bottino. Un doppio tradimento in cui il denaro contava più della vita e l’onore era poco più di un pretesto.
C’è qualcosa di tragicamente attuale in tutto questo. Quante volte, oggi, vediamo la logica del «se non posso averlo io, non lo avrà nessuno» applicata nelle notizie di cronaca nera? Quante vite vengono distrutte per l’avidità, per il possesso, per il denaro? La storia di La Palisse ci parla dal passato, ma il suo significato è fin troppo contemporaneo.
Il vero significato di un monumento a La Palisse
In occasione del quinto centenario della battaglia di Pavia, è stato proposto di erigere un monumento a La Palisse. Ma quale messaggio dovrebbe trasmettere? Di certo, non la celebrazione dell’ovvietà, che già abbonda nei media e nei social. Né tantomeno un’epopea cavalleresca che la storia ha smentito senza pietà.
Forse, il monumento dovrebbe ricordare proprio l’opposto: la brutalità delle armi, l’avidità senza scrupoli, la fine dell’onore sostituito dalla logica del profitto. Un monito per chi oggi, come allora, preferisce sparare prima di discutere, arraffare prima di riflettere.
Alla fine, l’epitaffio suona meno assurdo di quanto sembri: «Se non fosse morto, sarebbe ancora in vita» potrebbe essere letto come un’amara ironia sul destino di chi vive in un mondo dove l’avidità e la violenza decidono tutto.
Forse, il vero significato di quella frase è proprio questo: ricordarci che, se continuiamo su questa strada, siamo tutti un po’ lapalissiani. Se non saremo capaci di fermarci, finiremo per uccidere l’onore, la giustizia e, in fondo, anche noi stessi.
Luigi Eugenio Milani
[1] L’epitaffio, scritto dai suoi soldati, sarebbe stato: “il ferait encore envie”, anziché “il serait encore en vie” In Moyen Francais, la lingua francese parlata nel 1500, “faire envie” significa, in primo luogo “exciter le désir”, “suscitare desiderio”, ma può anche voler dire “fare invidia”.