Pavia ha mantenuto la sua vecchia struttura di accampamento delle legioni romane. Due strade principali a croce la dividono in quattro quadranti: i quartieri. In ogni quartiere le strade si incrociano ad angolo retto, formando ordinate scacchiere. Vista sulla mappa, è l’immagine dell’ordine più razionale. Scendendo più nel dettaglio, vediamo qualche stretto vicolo ribelle tagliarne le perfette caselle o avviticchiarsi fra loro a mo’ di serpente.
Un tempo, portoni e cancelli si aprivano su splendide corti e magnifici giardini. Talvolta, entrando, vedevi il muro di fronte dipinto come un fondale di teatro a mostrare prospettive di viali, altri giardini, il salone d’un palazzo principesco o l’abside di una cattedrale… Ricordo bene uno di questi muri scenografici: il suo skyline simulava un castello con le sue torri merlate ed era stato dipinto talmente bene da sembrar vero, con una tal perfezione che mai avresti detto avesse due dimensioni soltanto.
C’era libero accesso a queste corti, il passante poteva serenamente entrare, godersi la stessa ombra che aveva ispirato gli antichi poeti, sedersi sulle panchine, scambiare ricordi o parlare del momento presente con chi, come lui, si trovasse lì per caso, o magari con i proprietari. Non ne erano gelosi, anzi! avevano piacere che la loro bella proprietà fosse apprezzata e goduta dai concittadini.
Oggi, i portoni, magnifici nell’antichità del loro spesso e duro legno chiodato, sono chiusi. Ai cancelli sono stati fissati ignobili fittissimi retini neri o verdastri affinché nessuno violi con lo sguardo la privata proprietà.
Sono cambiati i tempi, sono cambiate, soprattutto, le persone.
La gente che passa per le strade si ferma soltanto per guardare le vetrine scintillanti di banalità, o siede ai tavolini dei bar per consumare, con tono sostenuto, la stessa stranezza alla moda che ha visto bere, iersera, dai divi in tv.
Era pomeriggio, era quasi verso sera, li vedevo percorrere altezzosi il cardo e il decumano, da nord a sud, da sud a nord, da est a ovest, da ovest a est, tutti i quattro bracci della croce nelle quattro direzioni.
Chi la teneva al guinzaglio, chi sulla spalla, chi la cavalcava, chi ne era cavalcato, erano tutti in compagnia della propria privata allucinazione.
Così come il padrone del cane crede di condurlo al guinzaglio e ne è invece condotto, e va dove la bestia vuole, costretto a fermarsi ogni volta ci sia una deiezione da fiutare o da deporre a futura memoria canina, così, tutti loro, nel loro andare, erano condotti dalle loro allucinazioni, convinti di controllarle.
Proprio come chi crede di possedere un cane di grande bellezza, o molto temibile, o simpatico, o intelligente, ma ne è invece posseduto e deve sopperire a tutti i suoi bisogni, così tutti loro si credevano padroni dei propri demoni e ne erano, invece, posseduti.
Demoni capra, demoni porco, demoni lupo mascherati da pecora, demoni di forme innominabili, irriconoscibili nel loro orrore perverso.
Ebbi la certezza che nessuno considerava tali i demoni propri e che ciascuno, pur senza vederli, temeva i demoni altrui.
Io solo ero consapevole di questa oscura realtà.
Il cielo era grigio-violaceo, l’aria verdognola, taluni puntavano, decisi, i loro occhi ciechi a una meta tanto ossessiva quanto sconosciuta, altri vagavano a caso, certi di sapere dove stavano andando.
Tutti erano condotti, quale che fosse il loro dove, da quelle forme mostruose che essi stessi avevano acquistato a caro prezzo e da cui erano dominati.
Chi sono io? – mi chiesi – Perché sono qui? Cosa ho a che fare con loro?
Sapevo che alle tre domande c’era una sola risposta, ma non seppi trovarla.
Forse la risposta stava in un’altra domanda: per favore, da dove si esce?
Luigi Eugenio Milani