Questa mattina al Summit Merger & Acquisition presso Fondazione Riccardo Catella di Milano ho avuto il piacere di incontrare Giuseppe Marotta – Presidente dell’Inter, assieme a Marco Samaja – A.D. di Lazard Italia che controlla l’Inter, e a Luigi De Siervo – A.d. Lega Serie A. Oltre alla crescita del mercato del Credito e di quello delle Fusioni e Acquisizioni si discuteva anche di Calcio e del ruolo degli investitori stranieri in Italia.
Ciò che ne emerge è che un tempo il calcio era un gesto d’amore. I presidenti erano tifosi prima che imprenditori: persone che sentivano il gol come una scossa, che si sedevano in tribuna con le mani sudate e gli occhi lucidi.
Ciascun club ogni anno chiudeva in passivo con perdite di circa una decina di Miliardi delle vecchie Lire, che oggi sarebbero almeno 2 Milioni di Euro di perdite per club, ma che puntualmente i patron ripianavano. Il bilancio veniva dopo, sempre. La squadra era un’estensione della propria identità.
14 anni fa esatti, il 1° aprile 2011, nessun club di Serie A era straniero. Da allora Roma, Atalanta, Bologna, Como, Fiorentina, Genoa, passando da Inter e Milan, Parma, Roma, Venezia e Verona, e non so quante altre società – ma almeno oltre metà delle squadre di Serie A – oggi sono in mano a investitori stranieri, soprattutto fondi americani. Il calcio italiano, come tutto ciò che è Made in Italy, è diventato un asset appetibile a livello globale, principalmente per gli introiti derivanti dagli stadi nei match days.
Purtroppo però si riscontra come queste nuove proprietà non hanno più accento, folklore e non hanno più cuore. Sono fondi d’investimento, holding e investitori che vivono a migliaia di chilometri, che non conoscono i giocatori, la città, le sensazioni e le lacrime dei tifosi. Guardano il club puramente come un asset, esattamente come si guarda ogni riga di bilancio di un report trimestrale.
Umanamente, è una perdita enorme. Non solo di passione, ma di senso. Il calcio era l’ultima cosa che univa generazioni, padri e figli, città e sogni uniti dagli stessi colori che non cambiavano mai. Ora è un business globale, senz’anima. E il freddo dei nuovi brand ha sostituito il calore della passione.
Le storie di calcio più belle oggi le trovi tra i dilettanti, sui campi fangosi d’inverno e polverosi d’estate, nelle squadre di provincia. Se il calcio di vertice è irrecuperabile, almeno salviamo quello vero, quello che profuma di erba appena tagliata e di speranze.
Basta finanziare i grandi club. Riportiamo i nostri figli allo stadio, ma a delle vere competizioni locali. Possiamo scegliere di non restare indifferenti e fermare questo scippo anche solo continuando ad amare questo sport per ciò che era e per ciò che – in qualche campo di provincia un po’ nascosto – è ancora.
CARONTE