Castello Sforzini

di Castellar Ponzano

Valorizzazione del patrimonio culturale pavese. Da Verzate con furore: il pittore dimenticato dai capelli rossi

Nel Quattrocento molti pittori pavesi ormai dimenticati dalla storia dell’arte e anche dalle storie locali, lasciano la patria per trasferirsi in Liguria dove spesso si sposano con le figlie o le sorelle di pittori locali per godere dei diritti di cittadinanza e a volte ereditano anche la bottega dello suocero, quando muore. Spesso sono pittori mediocri, che si inseriscono in un contesto reazionario come quello ligure e cercano di adattarsi perché è risaputo che la rivalità tra pittori foresti e locali aveva generato un moto di difesa da parte dei Liguri, con tasse più alte e periodi di praticantato più lunghi per far parte delle consorterie degli artisti. Contro queste barriere fiscali gli stranieri trovavano un sotterfugio facendo la corte alle donne che avevano legami famigliari con i maestri autoctoni, aggirando l’aggravio di tasse che gli stessi avevano imposto a chi venisse da fuori a “rubarci il lavoro”. Dinamiche noiosissime, che però gettano una luce interessante sulle botteghe liguri, di cui, se mai, parleremo più approfonditamente in un altro intervento. Questi legami per così dire dinastici, infatti, erano finalizzati alla conservazione dei patrimoni e delle botteghe, tipica di un’economia a gestione famigliare, ma nascondono un aspetto che è sfuggito alle pasionarie della storia dell’arte al femminile, quelle orde di ammiratrici di Artemisia che popolano musei e mostre e siti sull’arte che escludeva le donne e che andrebbero in brodo di giuggiole ad accorgersi di una simile inesplorata terra vergine per le loro ricerche non inclusive: le sorelle e le figlie dei pittori genovesi che erano congiunte in matrimonio con pittori stranieri erano a loro volta pittrici, perché vivevano in bottega fin da piccole. Si occupavano della gestione e della pulizia dei locali come era giusto che fosse, e mentre cuocevano la colla di coniglio sul focolare, di cui erano gli angeli custodi, osservavano mariti, fratelli e padri lavorare alle tavole. Spesso, mentre cucinavano il pasto per il maestro e i suoi allievi tirocinanti, il fuoco era prezioso e serviva tutto il giorno per diverse ragioni, per quello doveva restare acceso, (qualcuno doveva curarlo, e chi se non le donne?) buttavano un occhio al lavorìo artistico, insegnavano ai giovani apprendisti a disegnare, quando avevano un attimo di posa, posavano come modelle, forse tritavano qualche pigmento nel mortaio, ma la cosa più naturale che potessero fare, se non erano proprio inutili come quelle femministe integraliste main stream, che oggi non sanno nemmen più cuocersi un uovo, era imparare l’arte e forse anche dipingere!
Le si vede apparire come modelle, son sempre le stesse, tratti somatici e addirittura vesti che riappaiono nelle pale come se fossero versi formulari dell’ Enūma eliš. Ebbene, qualora vi capiti di vedere una santa, femmina, che aveva l’età della moglie del pittore (o di sua figlia) che rappresenta un “tipo fisiognomico” come direbbero i conoscitori, e se per caso quella figura tiene in mano una palma del martirio come si terrebbe un pennello, ecco, quello è un autoritratto! Già dal medioevo eh… guardate la moglie di Daddi… Ovvio, erano dipinti sotto la guida del marito, semplicemente le donne pittrici non sono passate alla storia per la nota impostazione patriarcale di quest’ultima e per il fatto che la storia non considera ciò che non è scritto nei documenti. Ma anche le immagini sono testi ricchi di significato e sembra che sia giunto il momento di assegnare loro, dopo l’iconic turn, la dignità di comunicarci quello per cui sono state dipinte. Soprattutto in una disciplina cieca ed estetizzante come la storia dell’arte. Ma questa è solo una divagazione.

Sarebbe il caso, invece, continuare sulla strada che avevamo dichiarato di voler percorrere nel nostro titolo. Come l’Oltrepò diede i natali a Francesco Grassi da Verzate e le sue poche opere siano testimoniate da cartigli firmati.

“Non si conosce la data di nascita di questo pittore originario di Verzate, piccola località dell’Oltrepò pavese, attivo in Liguria nella seconda metà del Quattrocento, nell’ambito della nutrita colonia di artisti pavesi che trovarono spazi e fortuna nella regione costiera. […] Tuttavia soprattutto le ricerche ottocentesche di Alizeri testimoniano una cospicua produzione del Grassi, della quale rimangono a oggi solo due opere, entrambe firmate.“

La prima opera è il polittico di Bajardo. In essa il cartiglio firmato “franciscus de verzate” è disposto ai piedi della figura di san Giovanni Battista, ma che cosa significa? Tutti sappiamo che la norma prevede che i dipinti non fossero firmati. O meglio è bene pensare che i pittori godessero di una fama tale da non formare le proprie opere alfabeticamente poiché lavorando per la maggior parte dei casi in una città in cui erano nati e cresciuti non avevano bisogno di marchiare le proprie opere con un motivo firma parlante. Anche perché spesso bastava il loro volto inserito in un personaggio che ne rappresentava le fattezze che i loro contemporanei e concittadini avrebbero subito riconosciuto perché li vedevano in chiesa, passeggiare per le strade e prendere parte alla vita pubblica come personaggi di riguardo. Le cose cambiano quando i pittori spediscono le opere per una collocazione altra rispetto al loro contesto famigliare, oppure, costretti da una concorrenza spietata con altri pittori, cercavano di affermare la propria fama con un cartiglio o una scritta che fugasse ogni dubbio sull’autografia. È questo il caso di Bajardo, una frazione nell’entroterra ligure, dove Francesco non era stanziale e forse spedì soltanto il polittico firmato da Genova, oppure risiedette solo per il tempo necessario a terminare il lavoro.
Ma la firma parlante è un istituto della prammatica dell’autoritratto: dov’è essa compare possiamo stare tranquillo che accanto ad essa ci sia l’autoritratto dell’artista. Ciò avviene con il san Pietro di Pietro Torriti, che sostiene la croce come uno strumento per appoggiare il polso e non strusciarlo sull’intonaco fresco,

o nel Cristo benedicente dell’Antonello da Messina, palese autoritratto che guarda lo spettatore e con un gesto di benedizione sembra impugnare un pennello 🖌️ col quale dipinge sul supporto come guardandosi nello specchio di un restello (la toilette veneziana delle dame), nel cartiglio ai piedi della pala Gozzi di Ancona di Tiziano, in cui Vecellio indica se stesso con una mano sul petto interpretando la figura di san Francesco di Assisi ( un francesco poco francescano senza chierica e tanto tizianesco). L’Alberto Durero che si ritrae in un autoritratto cristologico con ciocche inanellate da ventottenne (e firma in caratteri d’oro bene in vista) oppure nel Cristo della Pietà Vaticana, che condivide con il Durero la data e l’acconciatura alla moda, un Gesù appena 23 enne, che presenta insieme alla madre una incongrua giovinezza dai baffettuzzi agli angoli dell’orbicolare ma gote appena pubescenti che poco c’entrano con la barba mai tagliata del nazireo Nazareno. Anche in questo caso la firma è in bella vista sulla cinghia che divide i seni della vergine Maria (che indica il corpo esanime del ventenne che dovrebbe essere un trentenne) e origina proprio dal cadavere deposto. E potrei continuare per ora a farvi esempi di firme parlanti che sono accoppiate agli autoritratti, benché il progetto di ricerca della Scuola Normale sulle firme degli artisti ( https://www.quinewspisa.it/amp/pisa-firme-artista-3mila-euro-alla-scuola-normale.htm ) non si sia minimamente accorto – tutto concentrato sulla lettura – che i cartigli con le firme sono accoppiati alla Selbstdarstellung (auto-rappresentazione). Dopotutto il tema della firma parlante trova le sue radici nel vortice che tutto divora dell’antichità di cui possediamo frammenti preziosi come l’episodio narrato da Plinio dei due architetti Batraco e Sauro, che per non mettere il loro nome -peccando così di superbia e rischiando l’accusa di empietà per cui Fidia fu esiliato – firmarono i due templi di Giove Statore e di Giunone Regina, inclusi nel portico di Ottavia con una lucertola e una rana.

Questo vale anche per Francesco Grassi, che in entrambe le opere superstiti a lui attribuite inserisce la firma in corrispondenza del suo autoritratto. Di questo pittore si conosce pochissimo ma fino ad oggi nessuno aveva mai sognato di poter vedere la sua faccia, sapere che era rosso di pelo. La valorizzazione del territorio anziché promossa soltanto con le sagre di paese e il turismo enofilo andrebbe fatta anche attraverso una contestualizzazione e una comprensione del nostro patrimonio (anche se in questo caso applicata a un palese caso di expat o cervello in fuga). Il confronto con altri grandi pittori ci aiuta a comprendere meglio le opere di tutti, mediocri e eccellenti, all’interno di un movimento di amorevole discernimento delle regole compositive alle quali erano tutti sottomessi: come l’italiano ha una grammatica, così la pittura ha una prammatica.
E Verzate nella sua mediocrità di borgo oltrepadano annovera pure il suo sacro monte che in questi giorni sarà sede di uno spettacolo unico al mondo: la via crucis di fronte ai diorami del Santuario della Passione. Andate a vederlo!

Mauro Di Vito

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